Il ricordo e la preghiera di un padre e fratello
di Francesco Lambiasi*
16 aprile 2016
Caro direttore, scrivo di getto perché ho una cosa bella da raccontarti, di quelle che si confidano con il “tu”, sottovoce, tra amici. È una storia bella, bellissima, perché autentica, ardente di amicizia, contagiosa di perfetta letizia. È per questo che l’affido a te, perché diventi come una pagina di quel “quinto evangelo” che potranno gustare in molti. Mercoledì scorso, qui a Rimini, mi è morto un prete, don Giuseppe. Quando ho detto prete, ho detto tutto.
Non era un clericale: era proprio un prete–prete. Lo era con tutto se stesso: mite, battagliero, trasparente e innamorato, forte e tenerissimo. Aveva capito che per amare le persone, bisogna imparare a perdere. Per questo voleva bene a tutti, senza mai legare nessuno a sé. Ed era contento. Spesso diceva: «Non saprei immaginarmi diverso da quello che sono».
Che miracolo, un prete contento! Domenica scorsa ho concelebrato la Messa con lui. Prima di cominciare siamo rimasti da soli per un minuto. Gli ho chiesto: «Lo sai, vero, che per te questa è l’ultima Messa? Come la vuoi celebrare?». Mi ha risposto con un lampo negli occhi: «Come la prima». Dopo il Vangelo – era quello della triplice domanda di Gesù a Simone di Giovanni: «Mi ami?» – quando gli ho spalmato le palme delle mani con l’olio degli infermi, mi sono sentito investito da ondate di profumo che venivano dal crisma della sua ordinazione.
Alla fine ci ha lasciato il suo testamento: «Ogni volta che ho celebrato la Messa – era arrivato al suo quarantacinquesino anno di ministero – mi sono sempre fermato su quelle parole: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”». E calcando l’aggettivo “mio”, mi è sembrato volesse dire: “In questo momento, non perché io sia bravo, ma perché il Signore mi ha scelto e amato, il suo amore è in me e io sono in lui. Ho qui tra le mie mani la sua vita che diventa la mia, e la mia che diventa la sua”. L’Eucaristia fa della vita del prete un corpo donato, che continua a perdere sangue... In molti avevamo chiesto la grazia della sua guarigione, affidandola alla preghiera di don Giussani e del nostro don Benzi, ma lui rispondeva: «Non chiediamo al Signore di fare la nostra volontà. Chiediamogli la grazia di essere umili e disponibili a fare la sua».
Comunque, il miracolo c’è stato, eccome. Il miracolo di non aver vissuto la morte come una disgrazia, uno scacco matto, ma come un incontro, come l’inizio di una festa senza fine. Un giorno mi ha voluto confidare la sua preghiera. L’aveva imparata da una parrocchiana, tutta paralizzata: «Gesù, io sono tuo». Ed era felice quando gli chiedevamo di farcela ripetere. Caro direttore, adesso prega con me e con tanti che ci stanno leggendo: ora che il Signore lo ha preso, che ce ne mandi almeno un altro.
*Vescovo di Rimini
Lettera ad Avvenire