CHE TEMPRA D’UOMO. E DI PRETE
Monsignor Zennaro: quanto lunga è stata la sua vita! E quante delle nostre vite, di preti e laici, la sua vita ha attraversato. Confusamente ricordo il suo primo periodo di 'prete delle ACLI' e di tante attività lavorative o sindacali. Il periodo della sua direzione del Seminario coincise con i miei ultimi anni di liceo e con la teologia. Aveva un formidabile impianto ordinatore e promozionale che mise al servizio della disciplina del Seminario, riempiendola nello stesso tempo di una sorta di ‘furore ascetico’: una dedizione totale al Signore e al servizio della Chiesa. Quasi di mese in mese arrivavano le sue progressive 'restrizioni della libertà' di una regola disciplinare sempre più severa, che a tratti a noi pareva assurda, come il dettato che non ci si poteva mai togliere la veste talare, nemmeno per giocare a calcio o per impersonare le parti di una commedia programmata in Seminario; o la proibizione del fugace riposo del pomeriggio. Sotto questo aspetto combinava perfettamente con le direttive del vescovo Piasentini, non so se per natura o per virtù o per ambedue. Scriveva tutto e scriveva sempre; meditava scrivendo, trascriveva le osservazioni su di noi, annotava tutte le prescrizioni. Faceva cose che a noi giovani seminaristi parevano impossibili. La più impossibile di tutte era che dopo pranzo se ne andava a passare due-tre ore di adorazione nella chiesa della SS.ma Trinità, di cui sembrava essere rettore a vita: al freddo, con il pranzo ancora nello stomaco.
Era prolisso e ripetitivo nel parlare, ma diceva cose alte e profonde, a volte in modo quasi ossessivo, andando avanti per settimane sullo stesso tema, come nelle 'sei domeniche di san Luigi' in vista dell'estate, con esortazioni lunghissime. A quei tempi si stava in Seminario dieci mesi ‘a regime duro’, diciamo così: da settembre a giugno, più il mese di agosto nella colonia di Feltre. Ci sembrava di essere blocchi di marmo che lui continuamente e progressivamente squadrava. La questione dell'obbedienza e dell'attaccamento al vescovo era definita come un ‘diventare un blocco unico' con il superiore. Eppure non era formale. In quello che faceva lui c'era tutto intero. La sua vita era sacerdotale, cioè tutta immedesimata con Cristo e tutta dèdita alla Chiesa. Ricordo ancora l’accentuazione sull’inno del Gloria: “Tu solus”, Tu solo, Signore.
Si faceva più ammirare che amare. Quando cercava di apparire affettuoso poteva diventare scostante. Ha innalzato il seminario come una fortezza, la nostra ascetica come un muraglia. Imponeva ai chierici la lettura di certi testi di spiritualità, come i tre volumi del Rodriguez, con quegli impervi gradi ascetici e quelle scale delle virtù, che sezionavano l'animo umano e lo sospingevano a una dedizione totale. Letture subìte e fatte, che pur ci hanno lasciato il segno.
Ci ha avviato a cose grandi. Per gli esercizi spirituali dei seminaristi chiamava i sacerdoti più quotati d’Italia, come Silvano Colombini che aveva inventato una rivista mensile per i seminaristi e si firmava misteriosamente ‘Così’. Ci faceva crescere robusti, al caldo e al freddo. Apprezzava e lanciava nel lavoro, nello studio, nell’intraprendenza della vita.
Quest'uomo così tutto d'un pezzo e così squadrato sembrò avere una evoluzione sorprendente. Vide con particolare simpatia il sorgere del movimento di Comunione e Liberazione, fino ad aderirvi partecipando anche al gesto mensile della cassa comune. Dopo poco fu attratto dal Rinnovamento nello Spirito, divenendone uno dei responsabili, non solo a livello locale. Alcune sue scelte di vita apparvero sorprendenti, come una particolare espansione affettiva e una strana libertà di abbigliamento.
Riporto una percezione più labile del periodo di Vicario Generale, forse perché appariva maggiormente sotto l’ombra dell’imponenza del vescovo Piasentini o dello stile diverso del vescovo Corrà; e pure del tempo trascorso nella Casa di Esercizi di Sant’Anna, e quindi del tempo della vecchiaia e dell’infermità, che compirono l’offerta sacrificale della sua vita.
Pur se ha percorso l'era del Concilio e del post-Concilio, che sembrò abbracciare con trasporto, pareva tuttavia segnato da una forzatura e quasi un certo artificio. Lui era rimasto un prete e un uomo di un altro tempo e di un’altra pasta.