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CHE VADANO IN PARADISO

di Costanza Miriano

È ingiusto fare una classifica del dolore, però non c’è niente da fare: ci colpisce quello che per qualche motivo avvertiamo più vicino. Anche io mi sdegno perché i miei colleghi, giornalisti, danno diverso peso specifico ai morti nel mondo: un parigino vale, a occhio e croce, una novantina di nigeriani. Ogni volta mi ci arrabbio di nuovo, ma poi faccio anche io lo stesso: credo che sia inevitabile. Il nostro cuore non è infinito come quello di Dio, possiamo tenere solo alcuni legami, affezionarci ad alcune cose, sentirci vicini ad alcune persone. Guardando le immagini di altri terremoti non mi sono angosciata tanto. Forse non mi fa onore, ma è così.

Invece da quando, la notte scorsa, ci ha svegliati il cellulare di mio marito nel cuore della notte – lo chiamavano a Saxa Rubra per un’edizione straordinaria del tg – non riesco a pensare ad altro. – Che succede? – Devo andare al tg, andiamo in straordinaria. – Perché? – Un terremoto. – Ah, ho detto, rigirandomi e riaffondando la testa nel cuscino, pronta a dormire le altre quattro ore che mi spettavano. – Ma dove, scusa? La domanda balena da quel residuo di coscienza che rimane anche nel sonno. – Ad Amatrice.

Ma noi abbiamo trascorso lì le vacanze più belle degli ultimi anni, con le persone più care, eravamo lì poco fa, non è possibile, quello è il posto dei giorni belli, degli amici, delle passeggiate, delle salsicce. Non è vero. Non si può certo dormire, adesso. Chiamo gli amici nel cuore della notte, sono vivi ma non possono sprecare batteria per altri dettagli, così comincio a fare quello che ho fatto per le successive venti ore della giornata: cercare foto e notizie alla ricerca dei luoghi noti, delle strade fatte correndo o passeggiando o guidando, sperando di riconoscere qualcuna delle facce incrociate.

Cerco in tv o su internet i volti dei vecchietti dell’ospizio in cui vado a messa. Vedo don Savino, il parroco, che piange al tg1, lui, così timido e sempre misurato. Vedo l’ospizio femminile crollato. Sento che tre suore, suor Cecilia, suor Agata, suor Anna non si trovano. Credo che siano morte. Una di loro sicuramente era venuta ad aprirmi la porta quella mattina che ero in ritardo. Chiedo agli amici che sono ancora lì se è il caso di andare a dare una mano, ma giustamente la protezione civile vuole solo gente preparata.

Che si può fare in questi casi, a parte mandare pacchi di viveri, indumenti, coperte? Mi chiedo: cosa vorrei io da una perfetta sconosciuta che non sa fare niente, se fossi in quella situazione? Preghiere. Vorrei preghiere. Se fossi in pericolo di vita, se fossi ferita nel corpo o anche solo nel cuore, vorrei preghiere. Ma soprattutto se mi stessi presentando davanti a Dio per il giudizio supplicherei tutti gli sconosciuti del mondo di implorare per me misericordia. E visto che siamo nell’anno del giubileo straordinario della misericordia, mi è venuto in mente che ognuno di noi potrebbe adottare una delle vittime, e prendere per quella l’indulgenza plenaria offerta dal Giubileo. Potremmo scegliere un nome ascoltato alla radio, una storia che ci ha colpito, o magari possiamo dire a Dio di regalare quell’indulgenza alla vittima più anonima e meno “notevole” di tutte. Un vecchietto, una badante, se c’è, una persona sola, un bambino… che fine ha fatto la quattordicenne il cui padre è stato intervistato dal tg1 delle 20? Un padre che stava davanti alla casa dell’incubo, senza parole. Oltre al dolore straziante, qualcuno prega per lei? È salva? Se no, chi chiede l’indulgenza per lei?

Ad Amatrice monsignor Pompili aveva aperto la porta santa proprio il 13 agosto, nella chiesa di sant’Agostino che oggi è quasi distrutta. Da lì la gente si era spostata all’ospizio, perché visitare gli anziani è una delle opere di misericordia raccomandate dal Papa. Si era aspettato agosto perché in questa settimana dopo ferragosto nella conca amatriciana il numero degli abitanti quasi si decuplica rispetto all’inverno. Spero tantissimo che qualcuna delle vittime avesse approfittato di questa grazia pochi giorni prima di morire. Se c’è qualcuno che ne ha bisogno, ecco, possiamo essere noi al suo fianco, chiedendo per lui misericordia, facendo l’atto di carità più grande che possiamo fare a un fratello: presentarlo al Padre, chiedendo per lui non solo il perdono ma anche la liberazione dalle pene temporali dovute ai peccati. Questo è il soccorso più grande, perché, ne siamo certi, siamo nati e non moriremo mai più.