Marina Corradi - Avvenire 8 giugno 2018
«Ho provato a credere» esordisce la vibrante lettera di un professore di filosofia. Segue il racconto di una vita segnata dal dolore...
Caro direttore,
io ho provato a credere in Dio. Mille e mille volte da quando sono nato. Ho cominciato da bambino, quando all’oratorio un frate ci ripeteva le Ave Marie. Ci raccontava di un asino, di un bue, di una fuga in Egitto, e di Erode che non era riuscito a decapitare Cristo in culla. Mille volte stavo per dire sì, ci credo. Poi capitava sempre qualcosa... La prima volta è stata la mia nonna a convincermi dell’esistenza di Dio. La sua bontà, il suo sorriso uscito da una fotografia d’altri tempi, le sue mani che sapevano di borotalco e mi carezzavano la fronte. Vivevo abbracciato a lei. Mi sembrava di volare rispetto alla banalità dei miei coetanei. Loro razzolavano nei cortili, sulle spiagge, e io a volare con mia nonna. Poi mia nonna è rimasta paralizzata: la sua bocca si è stortata. Da angelo, l’ho vista satana: un’espressione sadica, un sorriso terribile, e un occhio più basso dell’altro, tirato da una parte. L’hanno portata via una notte in barella. Non l’avrei più rivista. E quando penso a lei, ancora oggi, la ricordo storta, nella maschera finale. Non riesco più a ritrovare i suoi occhi chiari, le sue mani di borotalco. Allora ho detto no a Dio, agli angeli. Mi sono sposato con un rito civile, e dopo due anni di matrimonio, mia moglie ha messo al mondo una creatura meravigliosa, uscita da un quadro di Renoir. Gli stessi colori di pelle rosa e i capelli biondi e ricci. Somigliava a mia nonna. Nascendo, aveva cancellato quel ghigno sul viso di mia nonna, e l’aveva fatta sorridere. Era lei. Lui era lei. Per un istante ho ripreso in mano tutto ciò che mi parlava di Cristo. Sono arrivato a pregare perché lui non s’ammalasse mai, perché le durezze del mondo lo risparmiassero almeno nei primi anni, e lo aggredissero dopo, più tardi, quando lui avesse fatto i muscoli dentro e fuori. E invece ancora una volta la mazzata del destino. Un attacco violento di una febbre sconosciuta. Una corsa all’ospedale, l’ossigeno che non bastava più... Se quel Dio c’era, in qualche modo ce l’aveva con me. S’accaniva, mi respingeva non appena io mi avvicinavo. E così avanti, fino a oggi. Oggi che insegno filosofia. Tante teorie, tante idee e marchingegni, per giustificare l’amarezza delle nostre esistenze. Quando mi capita di interrogare ragazzi che si dichiarano cattolici, li ascolto con grande attenzione. Cerco di capire i loro meccanismi cerebrali, i loro rapimenti, in fondo ai quali riescono a trovare Dio. Sono ateo. Mi costa dirlo. Fatico a dirlo. Mi vergogno a dirlo. Soprattutto davanti ai giovani, che hanno il diritto di sperare, il diritto di sognare un mondo migliore. Il diritto di volare, in questo terzo millennio, dove non conti soltanto il denaro, la raccomandazione, dove conti invece e soprattutto la dignità, il rispetto e anche la bontà. Che non è una forma di educazione per dare spazio a tutti, ma un atteggiamento per carezzare i cervelli degli altri, per non inquinarli, per non plagiarli mai. Per questo io chiedo scusa persino allo specchio del mio ateismo. Una strada dove la solitudine è la prima regola. Dove quello che otterrò fino all’ultimo istante di vita sarà il mio paradiso o il mio inferno. Così, mi ritrovo a passare i fine settimana negli agriturismo. Osservo la natura. Ma il gatto che corre davanti alla fattoria, finirà sotto un autobus. L’ho visto freddo, sull’asfalto, irriconoscibile. E quei cavalli nel galoppatoio? Come sono irascibili, eccitati. Si ribellano alla frusta, hanno delle impennate d’orgoglio. Ma poi s’ammalano, e muoiono. Anche loro immobili, irriconoscibili. E poi osservo i fiori dai colori sgargianti, che ti fanno pensare a qualcuno di superiore, a una mano che li ha inventati, creati. Ma basta una notte di pioggia, e li ritrovi melma, già nella terra, già preda di insetti. Siamo come fiori colorati e dischiusi, e inseguiamo il sole. Duriamo troppo poco. Il tempo di intuire questo misterioso malessere che non ci fa nemmeno riscaldare. Arriva già il vento, ogni anno più freddo dell’anno prima. Ho provato a volare mille volte, e sempre qualche sciagura incontrollata mi ha ributtato a terra. Penso che se Dio ci fosse stato, almeno un volo sarebbe arrivato alla meta. Ma non mi lamento, aspetto gli anni a venire, e voglio viverli istante dopo istante. Non chiedo pietà, e nemmeno tenerezza. Sono un fiore, finché c’è il sole. Poi comincerà a piovere. Per una malattia o per un altro dolore che non sopporterò, finirò mischiato al fango. Chissà chi mi calpesterà per primo.
Pino Enzo Beccaria
P.S. Scrivere questa lettera non è stato né semplice né facile. Un ateo che scrive ad “Avvenire”... Ma io al mattino, nella mia “mazzetta” voglio anche questo giornale perché lo trovo davvero confezionato più che bene.
Caro Beccaria,
il direttore mi ha affidato il difficile compito di rispondere alla sua bella lettera, la lettera di un professore di filosofia che si rammarica di essere ateo. Io sono una giornalista, non ho gli strumenti per dibattere con lei su un piano filosofico. Semplicemente le risponderò come farei con un amico che a tavola, una sera dopo cena, mi parlasse come parla lei. Non avendo la pretesa di convincerla, né di catechizzarla. Soltanto dialogando come con qualcuno che ti è caro. C’è stato un momento della mia vita, in cui avrei potuto scrivere parole simili alle sue. Attorno ai vent’anni. Non ero credente, come lei. Venivo da una famiglia sofferente e divisa. Noto perfino una singolare simmetria fra ciò che lei ricorda di sua nonna, e i miei primi anni con mia madre. Anche io ho passato la prima infanzia abbracciata a mia madre. Quasi ubriacata dalla sua straordinaria tenerezza. Felice, fra le sue braccia, come in un Eden. Anche io come lei, professore, ho visto quel volto amato trasfigurare, straziato da un lutto, e poi da una follia ingenerata dal dolore. Mia madre non era più la stessa, e io, sbigottita, ero stata cacciata dal mio Eden. Lei accenna a un figlio perduto; io sono marchiata dal ricordo di una sorella di quattordici anni, pallida, la treccia bruna su una spalla, il petto che si alzava a fatica in un respiro affannoso, nell’ultima lotta con una malattia mortale. E così, professore, una volta cresciuta io somigliavo un po’ a lei. Non riuscivo più a credere in un Dio buono, in un Dio che mi volesse bene. Se Dio c’era, pensavo, io non gli interessavo. Aveva le galassie e l’immensità dell’Universo cui badare, del resto, cosa mai poteva importargli di me. Quindi, caro Beccaria, io la capisco. E anche quando poi, adulta, dopo molti travagli, ho ritrovato la fede, non ho dimenticato o ripudiato quella ragazzina che si credeva dimenticata da Dio. Ogni tanto ancora si fa viva, discute con me, e io devo trovare le ragioni per convincerla. Purtroppo non godo di una fede pacificata, corazzata. Ogni volta che vedo il dolore – e soprattutto il dolore innocente, l’intollerabile dolore dei bambini – sono attraversata da una ribellione. Pretenderei spiegazioni, vorrei poter vedere il senso di tanta sofferenza. La ragazza che ero è ancora in me, con le sue domande brucianti. Ma in verità, e ormai sono quasi vecchia, il senso del dolore degli innocenti io non l’ho capito mai. È un mistero grande. Davanti al quale una volta maledivo – e ora, invece, prego. Lei, professore, scrive di un “malessere” che vede nella natura, perfino nella sofferenza e nella morte di poveri animali. Anche qui siamo simili: l’agonia di un animale, gli occhi sbarrati di un cane travolto sull’asfalto, mi turbano, perché quella creatura non sa nulla, nemmeno ha una coscienza, nemmeno può sperare. Lei certo conoscerà quella famosa poesia di Montale che recita: “Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia/ era l’incartocciarsi della foglia riarsa/ era il cavallo stramazzato...” C’è davvero, il misterioso malessere che lei vede nei cavalli inerti a terra, e che anche a me dà pena. Ma, da quando ho ritrovato la fede in Cristo, mi pare di riconoscere in quel male di vivere l’eco oscura di uno schianto che frantumò l’Eden. Di un peccato originale che ha marchiato il Creato, il quale pure, scrive Paolo nella Lettera ai Romani, “geme ed è in travaglio”. In sofferente attesa. Così come gli uomini attendono di essere liberati dal male e dal dolore: sapendolo, oppure anche negandolo. Non bastano certo poche righe su un giornale, per rispondere a una lettera come la sua. Né posso qui raccontare come sono tornata cristiana. Mi sono convinta negli anni però, come scrisse Emmanuel Mounier, che “Dio passa attraverso le ferite”. Che proprio le lacerazioni che la vita provoca in noi sono le fessure per cui Dio può raggiungerci – attraverso la nostra corazza di orgoglio. Il bel volto straziato di mia madre, il petto ansante della mia sorella quasi ancora bambina, sono stati, sì, dei solchi come di aratro in me. Ma, senza, io non avrei avvertito infine un così affannoso bisogno di Cristo. Senza quei solchi, non avrei mai capito che occorre, a un certo punto, arrendersi, e inginocchiarsi. E poi riprendere il cammino. E domandare che venga, colui che ha traversato la notte del Sabato santo. Che è sceso nel profondo della morte e del dolore, di tutto il dolore del mondo, e ne è tornato vivo, risorto – perché tutti noi possiamo vivere davvero, un giorno. La ventenne che sono stata si segnò un giorno su un quaderno, meravigliata, una frase di Pascal citata da Giovanni Paolo II in un’udienza: “Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato”. Lei, professore, che si guarda allo specchio e rimpiange la sua mancanza di fede, e insistentemente interroga gli studenti credenti, cercando di capirne le ragioni: chissà che quella frase, professore, non riguardi anche lei.